Non facciamoci domande.
In questo punto della città passa soltanto questa linea. Attendo ma non passano tram ne in una direzione ne nell’altra e deduco che forse potrebbe essere successo qualcosa, un incidente o qualche guasto paralizzante. A stare fermi si congela: decido di guadagnare qualche metro e mi dirigo verso il centro della città, verso la mia meta, verso la fermata successiva. Con passo deciso raggiungo in breve tempo la seguente insegna arancione. Decido di attendere qualche istante, ma è inutile. Lo sconforto comincia a farsi strada. Faccio spallucce e riprendo il mio cammino. Una, due, tre fermate; ho già percorso almeno un paio di chilometri e l’unica consolazione è che se non altro non sto soffrendo il freddo. Decido di fare una sosta dopo aver visto uno sporadico tram passare timidamente in direzione opposta. Qualche minuto di pazienza e il brucone verde ha “già” fatto il giro di boa al capolinea e mi raccoglie assieme ai miei occasionali compagni di viaggio. Trovo persino posto vicino a due simpatiche (forse perché ho l’IPod a tutto volume) signore anziane e mi siedo. Si parte tra il giubilo della folla festante, stretta tra le pareti vetrate. Manca l’aria e il riscaldamento è al massimo, di conseguenza comincio a slacciarmi gli abiti nella speranza di sedare il mio malessere. Non mi sono ancora del tutto ambientato quando, dopo poche fermate, l’autista comunica tramite opportuno altoparlante che il suo tram termina la corsa.
Si prega di scendere.
E così faccio, rassegnato a ignorare i tacchi delle due vecchie che massacrano i miei poveri alluci. Sono ancora sul marciapiede come dieci minuti prima. Attendo speranzoso il passaggio di un nuovo tram che ovviamente non arriva e decido per optare per una soluzione alternativa: alla prima occasione salgo su una nuova linea che non conosco ma che credo vada nella mia direzione. Fortunatamente le mie sensazioni sono esatte e fiero di me stesso mi faccio traghettare verso la mia meta. Questo tram è però particolarmente lento, in effetti c’è traffico e le macchine costringono l’autista a numerosi rallentamenti, ma in tutta la strada percorsa fino a questo momento non ho ancora trovato la giustificazione per tutti questi disguidi. Alla fine riesco ad arrivare alla mia fermata, scendo e mi dirigo verso la metropolitana. Scendo in profondità e, tanto per cambiare, faccio ciò va fatto: attendo pazientemente. Qualche minuto e un accogliente carro bestiame si ferma davanti a me e alla massa informe di persone con cui coabito la banchina.
C’è calca, c’è ressa.
Trattengo il fiato per potermi incastrare tra un ragioniere, un immigrato e un giovane con la passione per i piercing facciali. Fortunatamente ho solo poche fermate, ma, è il caso di dirlo, sono sudate. A ogni stop scendo nel tentativo di fornire un passaggio utile ai più fortunati, ovvero quelli che sono arrivati a destinazione. Con un sospiro di sollievo i miei occhi accolgono la scritta che desideravano sui muri della stazione.
Sono arrivato.
Scendo sospinto dai condizionamenti provocati dalla legge sull’impenetrabilità dei corpi e mi ritrovo senza sforzo alcuno sulle scale mobili… guaste. Riemergo e affronto l’ultima passeggiata. Un po’ di traffico qua e là, qualche autista distratto, qualche parcheggiatore creativo e arrivo, quasi incredulo, a casa. Infilo la chiave nella toppa e controllo l’orologio: sono le 20.20. Ho quindi impiegato soltanto 1 ora e 40 minuti per percorrere circa una decina di chilometri.
Se qualcuno di voi pensa che io abbia voluto raccontare un fatto eccezionale, mi duole dirlo ma si sbaglia. Questo purtroppo rappresenta l’assoluta normalità. Difficile giustificare dunque il diffuso sentimento di sfiducia verso i mezzi pubblici, davvero non lo so spiegare. Prossimamente vi racconterò di come la città meneghina accolga coloro che cercano un’alternativa alla pubblica locomozione.